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Lockdown

23 Mar

Queste sono le frasi che ho cominciato a leggere o ascoltare intorno a me dal primo giorno di quarantena. La raccolta è in continuo aggiornamento perciò se tornate qui tra qualche ora potreste trovare il componimento cambiato. In molti casi ho modificato dei dettagli per ragioni di privacy.

 

 

Avevo appena deciso di contattare una agenzia immobiliare e il giorno dopo mi sarei messa in macchina per tornare a Roma e salutare il mio ex suocero in ospedale: stava camminando lungo un marciapiede quando si era immobilizzato.


Pensa invece che mio figlio si stava preparando per un dottorato e non sapeva se fosse meglio rimanere a Parigi o prendere un treno notturno. 

Da giorni cercavo di convincerle a rimanere a casa, e invece le mie amiche erano partite ugualmente per Amsterdam.

Stavo aspettando che la neve si sciogliesse. Ironia della sorte, avevo appena concluso un accordo per fare il telelavoro ed ero contenta di lavorare da casa.

Dovevamo debuttare proprio sabato con la nuova commedia dialettale.

Mi aveva appena inviato un messaggio dopo mesi: “Ti vorrei parlare”. Le avevo risposto che ero pronta, ma aveva smesso di scrivermi – impaurita. Non sapevo ancora dove vivesse e come stesse passando il suo tempo.

Stava migliorando il suo inglese grazie a te.

Un pomeriggio mi aveva chiamato un vecchio amico che mi profetizzava l’Italia in recessione e per questo si stava trasferendo a Barcellona per evitare la catastrofe sanitaria. 

Mi aveva chiamato per raccontarmi che stava frequentando un uomo separato con tre bambini e che le pareva finalmente una relazione felice: l’ultima volta avevamo cenato insieme in un ristorante di Monti.

Ci stavamo scrivendo centinaia di messaggi felici per organizzare quella serata fantastica con la scrittrice: c’era chi componeva, chi filmava, chi proponeva, chi voleva soltanto prendere uno spritz rilassata al sole in una piazza di Padova.


Mi colava il naso, avevo la tosse: una paura infinita.

 

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Ecco a cosa somiglia: a quelle lunghe estati di quando ero piccola e gli amici erano sempre lontani. 

Hai più sentito Andrea? Adesso che l’inferno non sono più gli altri, come va? E quell’azzurro purgatorio di piazza San Pietro, avevi mai visto il colore dello spirito? Continuo a pensare che sia l’unico leader rimasto sul pianeta: claudicante, stanco, non s’è nemmeno inginocchiato; non eravate atei? 

E’ come una guerra, anzi, non è una guerra perché non c’è la fame- e come ci divertiamo a vedere i neoliberisti trasformarsi in nazionalizzatori di fabbriche. 

Prima ho inviato “Bella ciao” eseguita dai musicisti serbi al mio ex suocero: dice che alla clinica lo trattano bene anche se è difficile fare amicizia, tutti indossano le mascherine. 

Dài, scarica HouseParty e facciamo una videochiamata questa sera con tutti quanti – Ti sembrerò schizzinoso ma preferisco sentire gli amici singolarmente: tutti insieme non si capisce niente.

Però il tuo amico che si sentiva tanto furbo a scappare in Spagna ora potresti chiamarlo per fargli una pernacchia – Cosa vuoi che gli dica, potrei semplicemente inviargli un messaggio citando Francesco: pensavamo di rimanere sempre sani in un mondo malato. Non sai quante persone mi fanno pena, ora. Sono quelli che si stanno schiantando.

Mia cognata è uscita dalla terapia intensiva, mia suocera ancora aspetta il tampone: ti pare possibile che la Asl non le abbia ancora chiamate? Che ridere mi fa il tuo amico quando dice che si può ammalare adesso che sono arrivati i medici cubani.
Se continuo a mangiare così, quando sarà tutto finito non mi riconoscerete più. Metti sul Tg1, c’è una nuova conferenza stampa a quest’ora di notte: spero che chiuderanno tutto.Tutti cantano e solo questo condominio sembra un mortorio: meglio così, cantare per cosa poi.

Una cosa vorrei dire alle maestre: date meno compiti ai nostri bambini perché noi genitori due mani abbiamo, o impastiamo o aiutiamo i figli a studiare. L’altro giorno ho preso 9 al compito di inglese online di Stefano.

Siccome non possiamo organizzare un incontro, chattiamo di nascosto usando un telefono di cui pochi conoscono l’esistenza. Mi manda cuori e faccine che si scompisciano dalle risate. A lei non lo posso dire e so che non è elegante, ma sapere che quell’altro lì sta passando la quarantena murato vivo dentro quella casa mangiando scatolette di tonno mi mette il buonumore.

Così adesso sto vivendo con lui e con i tre figli suoi: non avremmo mai fatto così in fretta. 


Leggo notizie terribili dall’Italia, spero tu stia bene: sai che mi è nata una bambina?Ma pure a voi ve stanno chiamando tutti l’ex, che c’hanno? Stanno a morì e devono salutà tutti?


Mio fratello è morto per un altro motivo e non siamo riusciti a fargli il funerale.

Rimaniamo a Milano, anche se l’unico rumore è quello delle ambulanze.

Se ci pensi in ospedale non è ricoverato nessun extracomunitario. Invece di Luigi dicono che sia andato al pronto soccorso da solo e l’hanno intubato subito. Nella camera accanto c’era quel tuo amico che invece si è risvegliato e il rianimatore gli ha prestato il telefono per chiamare la moglie. 

Questo ti volevo dire/ci dovevamo fermare: pensavamo di rimanere sempre sani in un mondo malato.

Non riesco a tenerla ferma: piange e vuole uscire. Adesso provo con il canale di yoga per bambini 

Non senti il ticchettìo dell’intelligenza del mondo al lavoro per risolvere tutto questo?

Ci ha chiesto di mettere la foto di una candela nel profilo Whatsapp e non ho saputo dirle di no. A proposito, hai sentito che è morto il principe Filippo?


Non riesco a concentrarmi, non leggo niente: dicono che sia colpa dellla mutazione dell’ambiente psichico, un miliardo di esseri umani concentrati sullo stesso problema non era mai accaduto, ci mancava il terremoto a Zagabria.

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A mio nipote ho detto la stessa cosa che dico a te: risparmia anche sul cibo perché saremo più poveri. Compera le saponette. Lascia stare le merendine.

Quest’estate spero proprio che ci vedremo alla baita come sempre: sento già il sapore della panna madre in bocca.


Non vedo l’ora di fare l’esame per la patente e comunque il 3 aprile esco e vado a trovare la mia fidanzata.


Ho letto che i cinesi di Wuhan per prima cosa sono andati al ristorante e una percentuale consistente s’è comperata un gioiello.


Ti sistemo qualche vestito perché non è detto che riuscirai a comprarteli.


Mi inginocchio tutti i giorni per chiedere che finisca, però la gente si chieda come mai tutto il bello deve sempre succedere fuori casa.


“Andrà tutto bene” lo dice chi se lo può permettere, non chi perderà il lavoro.

Guarderemo Black Mirror con la stessa tenerezza con cui guardavamo Star Trek.


C’è gente che sta decidendo di divorziare o di fare un figlio: niente sarà come prima.


Sto preparando la mia casa di Zagarolo per una festa.


Se gli organizzatori hanno cancellato il concerto di Nick Mason in programma a giugno significa che sarà lunghissima.

Chissà se potrò prendermi quella gonna a righe bianca e rossa.


Sarà peggio di una guerra.


Ecco una foto della torta alla ricotta che ti cucinerò, ma senza pancetta.


La Cina si prenderà l’Europa, vedrai.


La mia generazione è spezzata: prima la crisi del 2008 e adesso questo.

Spero avremo una settimana di disintossicazione dal telefono e dal web.


Capiremo che non siamo i protagonisti del pianeta: già i cigni affollano i canali di Venezia.


La prima cosa sarà venirti a trovare, ti porto i regali che conservo dentro l’armadio: ma soltanto se lo vorrai.

 

*ispirata a Necropolis di Luc Sante

 

NOTE: Grazie a Eleonora Gaudiosi che mi concede di utilizzare la sua magnifica “e ora che l’inferno non sono più gli altri, come va?”. Grazie anche a Ciro Saittello per l’ispirazione.

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Ritorno

21 Mar

  

Fu un caso se alzai gli occhi e vidi i due bambini infilarsi rapidamente dietro i gelsi.

Mi trovavo nell’aia ad arrotolare il tubo di gomma dopo aver innaffiato l’orto e dalla cucina sentivo il confortevole tramestìo delle stoviglie che la Ines stava utilizzando per cucinare. La camicia si era incollata alla schiena per via dell’afa, perciò facendo il gesto di sfilarmela avevo d’istinto guardato verso la ferrovia. Ed erano laggiù, incurvati, traditi dalla camiciola bianca e dai pantaloncini rosso sangue.

Spalancai il cancello, subito il cane corse incontro alle due piccole figure che cominciarono a balzare via sulle gambe lunghe. Allora anch’io aumentai l’andatura e li chiamai a gran voce finché il ragazzino si bloccò e mi guardò con spavento.  Fu lui a parlare per primo, ma alla bimba: “Fermati!”. Non indossavano le scarpe e non osservavano me, ma qualcuno alle mie spalle: o almeno questo mi parve, perché quando mi voltai non c’era nessuno sul viottolo ombreggiato. Sentii allora uscire dalla mia bocca una voce malsicura: “Cosa succede? Vi siete persi?”. Rispose soltanto la bambina, che mostrava due occhi neri come la tana di un’istrice: “Stiamo tornando in Canada”.

Dopo qualche minuto i ragazzini erano seduti composti sulle sedie in fòrmica della cucina, abbagliati dal sole calante che come ogni sera accompagnava le nostre cene. “Raccontatemi allora: perché in Canada?” chiese la Ines fingendo credulità di fronte a quella sembrava una bugia.

“Perché lì avevamo i nostri amici e una casa bella, una macchina grande e papà ci portava in moto” rispose la bambina che si chiamava Agata.

Siccome la Ines aveva cucinato delle polpette di carne impanate, si mise a tagliare dei pomodori e aggiungerli ai fagioli con la cipolla, per poi mettere due piatti colmi di fronte ai bambini e uno altrettanto ricco a me. Mentre Remo cominciava a mangiare educatamente distogliendo lo sguardo non appena provavo silenziosamente a coinvolgerlo, lei invece parlava come se fosse a un provino in televisione. Con voce sicura tenne a raccontare che il sabato precedente con la famiglia erano tornati da Toronto dove erano vissuti otto anni e che la decisione di ristabilirsi in questa punta occidentale della campagna trevigiana a loro, come alla madre, era parsa decisamente insensata. “Lì avevamo tutto, sai? Palazzi giganteschi, ponti lunghissimi, store pieni di cose da mangiare”. E invece, irragionevolmente, il padre aveva messo in vendita la casa di legno; se l’erano presa dei friulani che andavano spesso lì a giocare a carte.

Nella notte sentivano le urla sommesse dei genitori che in camera da letto litigavano. “Io so perché papà voleva tornare”, esplose improvvisamente il bambino interrompendo la sorella: “Ha ricevuto una lettera dai nonni che stavano male”.

“Ma poteva venire da solo qui!”, puntualizzò lei, allargando le orbite e facendo vibrare le punte dei boccoli che svettavano verso l’alto. Remo allora si zittì e piantò il viso nel piatto, lasciandola parlare. La Ines mi guardò con il gomito sul tavolo e la mano che copriva la bocca.

“Ragazzi, ma come pensavate di andare in Canada se stavate camminando lungo i binari che portano a Trento”, osservai con delicatezza. Agata mi guardò ammutolita, punta sul vivo. “A Toronto soffiava sempre un vento molto forte”, ricominciò, “e allora ho pensato che seguendolo avremmo capito quale fosse la direzione giusta per Genova”. “Per Genova?”. “Sì, dove partono le navi per l’America”, ribatté Agata: “Solo che questa mattina mettendoci in piedi e uscendo di casa non sentivamo vento, anzi, l’aria sembrava mancare per il caldo”. 

E così si erano avviati di soppiatto dopo la colazione da una casa tozza immersa in un oceano di pannocchie poco famigliari e camminando l’intero giorno avevano percorso una quindicina di chilometri. Scoprimmo che il punto della loro partenza era il paese dei miei genitori, che avevo lasciato per sposare la Ines e stabilirmi verso le colline. Da quando i miei vecchi erano morti non ci avevo più fatto ritorno.

Ma fu solo quando la bambina fece il nome della madre che credo cambiai espressione. La Ines si accorse del mio stupore: “La conosci?”. I bambini allora in sincronia si voltarono verso di me con aria sbigottita, poiché doveva apparire loro davvero mostruoso aver pianificato una fuga per poi finire a casa di un amico di famiglia. Parlai a loro con un sorriso gramo: “La conosco di vista, siamo cresciuti sulla stessa strada”. 

Lasciammo i bambini in sala da pranzo e andammo nella cantina, e chiudemmo la porta. La Ines era risoluta: “Prendiamo la macchina e riportiamoli subito, chissà quanto sono in pensiero questa Nelly e suo marito”. 

Siccome a lei non avevo mai raccontato nulla, avevo bisogno di prendere tempo. Così proposi di fare tutti quanti un bagno per essere presentabili e mi rifugiai nella doccia ricavata accanto al fienile dove lasciai scrosciare acqua fresca sul collo.

La Ines gradiva quella mia idea di dare una rinfrescata a Remo e Agata, così li aveva condotti nel bagno al piano di sopra e al mio arrivo la trovai leggermente curva dietro la porta socchiusa in attesa che uscissero dalla vasca per poi passare l’asciugamano rosa che teneva in mano. Le toccai l’avambraccio : “E tu, sei pronta?”.

Stupì entrambi il quieto dolore con il quale accolsero la nostra decisione di interrompere la fuga fallimentare per accompagnarli a casa. Mi chiesero di attardarci quando saremmo arrivati poiché temevano la reazione della madre e  mentre li rassicuravo riconobbi finalmente la mia Nelly nei riccioli castani di Agata ma non scovai alcuna traccia nelle fattezze di Remo. Li aspettai nella Opel qualche minuto prima di vederli scendere dai gradini di casa, i ragazzini avevano ancora i capelli umidi. Il sole era calato e lentamente ci avviamo nel canto dei grilli, io con l’animo in fiamme e la Ines che a intervalli si voltava come volesse verificare una volta ancora che nella nostra macchina ci fossero davvero due bambini.

Quando arrivammo nel cortile lei stava alla finestra illuminata, un profilo grasso di matrona che non ricordavo. Eppure la riconobbi subito, era lei e nessun’altra.

Spensi il motore e dal finestrino le gridai: “Agata e Remo sono qui con me”. Allora uscirono in tanti dalla casa, cognati e cognate, bambini in camicia da notte e vecchie vestite di nero, strillando i nomi dei bambini che per la paura si erano accoccolati dietro. Ci fecero entrare per bere del vino, nessuno aveva toccato cibo, e vidi le pareti scrostate, le tendine misere, il cucinino a legna. 

La Nelly non abbracciò né l’uno né l’altro, anzi, li rimproverò forte con i capelli scarmigliati e io stesso ebbi paura che potesse colpirli con la scopa appoggiata nell’angolo accanto alla madia. Qualcuno aveva preso la bici per avvisare Luigi, il marito che era uscito per cercare i figli, e quando arrivò con faccia  spaventata prese in braccio entrambi, portando il suo viso in mezzo ai loro e stringendo forte.

Fu allora che mi accorsi che era incinta, e teneva per mano un bimbetto di tre o quattro anni che doveva essere nato a Toronto; il suo viso luccicava dell’umidità calda e nel complesso appariva stremata. Probabilmente, mi venne da pensare, il ritorno indesiderato per la prima volta la metteva di fronte a un giro del destino che non poteva controllare.  La guardavo senza curarmi di nulla, prolungando lo sguardo per comprendere se stesse volutamente ignorando la mia presenza o desiderasse cacciarmi nuovamente dalla cucina come un topo.  

Era accaduto in un crepuscolo primaverile dentro una casa di pietra dove razzolavano le galline; la Nelly era alta e solida e mi voleva accompagnare alla bicicletta. “Vorrei stare qua ancora un po’”, le avevo sussurrato sperando di poterla abbracciare ancora dietro il fico. Ci conoscevamo bene e ultimamente la notte la sovrapponevo all’immagine di un’attrice bella e scorbutica che mi teneva sveglio. “Torna a casa. Cosa penserà la gente se ti vede ancora qui?”, mi aveva chiesto lei digrignando i denti. “Penserà che siamo fidanzati, che male c’è?”. Fu come se le avessi toccato i nervi con la corrente elettrica. “Sei pazzo, cosa ti sei messo in mente? In casa tua nemmeno avete le lampadine, non sposerò un poveraccio”. 

Ora continuavo a fissarla, ma la Nelly fingeva fossi un conoscente di poco conto e lasciava a tutto il resto della famiglia il compito di mostrarci riconoscenza. La Ines era ubriaca di attenzioni, non eravamo abituati a vivere in mezzo alla gente e per questo a un certo punto della serata mi diede una occhiata veloce per chiedermi di riprendere la macchina. Così mi alzai e strinsi la mano a Luigi, il quale mi abbracciò stretto e poi mi accompagnò al bagagliaio che volle riempire di vino, ortaggi e un pollo che un cognato aveva appena ammazzato appositamente per noi. 

Le gomme scrocchiarono sulla ghiaia fine del viottolo nero mentre ci allontanavamo lentamente dalla casa dei bambini, che erano stati mandati a dormire senza salutarci. La notte era alta e il cielo ricoperto di stelle e scivolavamo sulla strada senza parlare, io e la Ines, fumando entrambi una sigaretta con i finestrini abbassati. 

Quando scese per aprire il nostro cancello, vidi che la gonna si alzava a un vento forte che preludeva al temporale, e feci appena in tempo a parcheggiare accanto al fienile che cominciò a scendere un forte acquazzone di fine estate. Prima di coricarci decisi di chiudere gli scuri per proteggerci dalla brezza che entrava prepotente nella stanza da letto e poi mi stesi sotto il lenzuolo accanto al suo corpo smagrito. “Che peccato averli riportati indietro”, disse a un certo punto dentro un sospiro prima di addormentarsi, e quelle furono le ultime parole che mai pronunciammo sull’argomento. 

Ad Alberto, Federica, Tommaso, Alessandra, Francesca e Tommaso – figli di Remo e Agata (2020)

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